#OcchiBlu

Ma in effetti ormai è giunto il momento di andare,
per me a morire, per voi a vivere;
quale di noi due vada verso un destino migliore,
è oscuro a chiunque tranne al dio
.

Con queste parole enigmatiche e immortali, pronunciate da Socrate nell’Apologia, a seguito del verdetto processuale che ne sentenzia la condanna a morte, Maurizio salutava dieci anni fa il consorzio umano e si preparava a un’avventura a noi ignota.

Nella citazione platonica – meditata, metabolizzata e infine scelta con tacita lucidità come epitaffio – egli racchiudeva il senso della sua breve e tragica esistenza, prematuramente recisa, per utilizzare una similitudine catulliana a lui cara, come un fiore che al bordo / del campo l’aratro ha falciato, tirando avanti.

Poche righe dunque, che pure paiono cogliere le sfumature più autentiche dei suoi trent’anni, ad un tempo vissuti e bruciati, accarezzati e respinti: la passione per la filosofia, la dedizione di un’esistenza altrimenti intollerabile all’incessante colloquio con gli antichi, la ricerca di un sofferto equilibrio baudeleriano tra la Bellezza e il Tormento, il distacco dall’uomo che se ne va sicuro al prezzo di una solitudine soffocante.

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Rispondendo con entusiasmo alla celebre esortazione dantesca, Mauro ha seguito fino in fondo virtute e canoscenza.
La sua dedizione agli studi classici e alle discipline filosofiche appare fin da subito divorante e assoluta. Prende corpo dopo la maturità, sbocciando vivida sulle ceneri di studi tecnici sempre detestati e di fatto poco consoni ad una natura sensibile e meditativa. Finisce ben presto per assurgere a vero e proprio faro contro le tenebre del vivere, che già gli si palesano minacciose negli anni della tarda adolescenza.

Gettati con piacere alle ortiche gli odiati circuiti elettrici, Mauro scopre la bellezza del pensiero socratico, se ne innamora, ne fa motivo e spinta ad una rinnovata crescita interiore.

La passione per il sapere si fonde e si intreccia con quella, da sempre nutrita, per la poesia e la letteratura.
Baudelaire, Hikmet, Pasolini, Neruda e Montale sono alcuni tra i suoi interlocutori prediletti quando, svestiti gli odiati panni di magazziniere, veste cotidiana, piena di fango et di loto, può entrare nelle antique corti degli antiqui huomini e dialogare con loro sul senso più profondo e nascosto delle cose.

Nella sua camera, rimasta ancora intatta, c’è una piccola e preziosa biblioteca, dove i volumi ingialliti dal fumo giacciono pieni di segni, di annotazioni, di fogli inframezzati alle pagine lievemente accartocciate ai bordi, segno inequivocabile di una lettura nervosa, ripetuta e attenta.

Chi entra in quel piccolo tempio, sacrario in cui il tempo si è fermato per s
ortilegio ai rintocchi di una remota mezzanotte, osserva dapprima la quieta distesa dei libri e finisce poi per posare lo sguardo sui vinili ordinati sugli scaffali.

La mole dei 33 giri, come quella dei cd, è imponente. Un tempo lo era molto di più.
Maurizio ha voluto che ciò che amava sopra ogni cosa, la sua musica, venisse smembrata tra gli amici e le persone care, perchè tutti potessero avere, inciso tra quei solchi leggeri, un pezzo della sua anima. Anticamente per conservare memoria dei propri cari se ne mangiavano le carni, di Maurizio simbolicamente abbiamo tutti cannibalizzato la musica, nutrendoci del suo cuore.

E ancora è giusto ricordarne la bellezza perduta, i ricci lucenti e scuri come il fiore del giacinto, la trasparenza degli occhi, luminose pozze d’acqua limpida, cristalli così preziosi e perfetti da togliere il respiro e fare male.

Da piccola era il mio principe azzurro, dall’alto dei miei cinque anni smozzicati gli chiedevo sempre sospirando di sposarmi. Di solito contrattava un sì biascicato in cambio della possibilità di vedere Happy days al posto dei cartoni animati giapponesi che adoravo.

Riusciva sempre a spuntarla, fedifrago impenitente. Lo guardavo estasiata per intere mezz’ore, mentre lui, di rimando, fissava senza sosta il piccolo schermo di un brutto televisore arancione nella cucina di mia zia.
Happy days, quei giorni lontani, so eighties

E c’è una foto di noi due da piccoli, scattata nel buio di una galleria di Liguria. Sorridiamo nella luce sanguigna del flash, i volti vicini fino a sfiorarsi, felici.

Mi piace ricordarci così, quando la vita era una schiusa di sogni iridescenti e un urlo possente di gioventù ancora da vivere ci attraversava gli occhi fissi all’obbiettivo come un lampo improvviso.

Adesso che le prospettive dello sguardo sono diverse, mi consolo pensando che Mauro non ha conosciuto il disincanto della gioventù che vanisce, il Rimpianto sorridente quando la vita prosegue il cammino, l’affacciarsi malinconico degli anni defunti ai balconi del cielo.

Nell’implacabile scelta di Necessità tra l’invecchiare o il morire, la sua partenza precoce lo ha sottratto allo scorrere del tempo, ne ha fatto un’icona di bellezza inquieta e dolente con una chitarra stretta tra le braccia, la mente piena di ideali, l’ardore di un rivoluzionario che non conosce corruzione della carne.

Ma la sua trasformazione in pura materia eterea, consegnata imperitura alla memoria, non è stata indolore.

Per chi era presente è impossibile dimenticare quell’Aprile alla Certosa, le mattonelle rotte, gli angeli gotici anneriti dal tempo, i fiori polverosi nel groviglio ininterrotto dei passaggi, la sensazione di perdersi in un greve labirinto.

Nei giorni che annunciavano la Pasqua non c’era il sole a ferire le pareti; un grigiore opprimente velava di pioggia il cammino verso l’obitorio.

Era freddo nella camera ardente.

Giaceva composto nel rigore della morte, vestito di una semplice tuta blu, senza l’abito della festa inviso alla sua anima proletaria e idealista, con un rosario stretto tra le mani già tumide e Il capitale nascosto tra le pieghe del feretro.

E c’era una madre, come Vergine di duecentesca memoria, ad abbracciare straziata il suo giglio amoroso: il corrotto, iniziato ai piedi di quella croce a lungo paventata, continua da quel giorno senza tregua, né si spegne, cantato dal sospiro di labbra ormai aride, accompagnato dallo sguardo di occhi ormai asciutti. Perché il dolore nutrendosi prosciuga ogni cosa.

Maurizio dorme alla Certosa, figlio della sua amata Bologna, terra restituita alla terra.

Dalla tomba che lo protegge, alzando lo sguardo, si vede la strada che porta a S. Luca.

Il porticato settecentesco che conduce da porta Saragozza al Santuario procede ininterrotto per seicentosessantasei archi e nei giorni di foschia pare arrivare a sfiorare il cielo.

Chi solleva lo sguardo dallo schianto di quei trent’anni perduti alla pace silenziosa dello skyline lontano di certo si chiede come possa lo sguardo umano coprire distanze così abissali in un solo momento.

E un dubbio sale, muto, dal fondo del cuore, libagione ctonia gradita a chi è stato, ed è, pungolo acerbo alla pingue ottusità del quieto vivere.

el


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